giovedì 9 giugno 2016

Le donne di Virzì e quelle di Almodovar

Mi è piaciuto il film di Virzì su "La pazza gioia" .
Già il titolo suggerisce diversi aspetti: è una espressione che indica una contentezza estrema, ai limiti  della follia. Oppure può  essere riferita alla gioia della follia, a quel divertimento che può esserci nel sovvertire le regole, nel fare per una volta qualcosa di strano,  diverso dalla quotidianità. In realtà la "pazzia" vera, la malattia mentale,  non è affascinante, non è una condizione da invidiare, non è genialità. La follia è soprattutto sofferenza, contrariamente ad una certa retorica, non rende le persone migliori, non sempre almeno. Beatrice e Donatella  sono "malate", tristi fino a pensare che nulla valga la pena, emaciate per il rifiuto di vivere o incostanti e invadenti, presuntuose e illuse, che non vedono la realtà. Virzì si è consultato con professionisti del settore, ha visitato i centri di salute mentale, e,  ancora più interessante, ha scritturato come attrici persone che hanno partecipato alle attività teatrali di una cooperativa collegata al DSM di Pistoia, per recitare se stesse. Ad alcuni  (http://www.psychiatryonline.it/node/6283) il finale del film appare troppo buono, positivo, avrebbero preferito un finale più drammatico ed aperto.
A mio avviso invece Virzì, con il fondamentale aiuto della Archibugi, che ha collaborato alla sceneggiatura, riesce a non presentare solo dei quadri patologici, nè ad indicare una soluzione facile, ci racconta due persone complesse, donne che ragionano e scelgono, che amano, che possono sentire sintonia tra loro anche se distanti, che possono aiutarsi e sostenersi, donne come noi.
Donatella è una ragazza segnata da una famiglia scombinata, che si trova a confrontarsi con una maternità capitata per caso. Beatrice è una signora di buona estrazione, la cui fragilità la induce a travestirsi da dispensatrice di consigli e soluzioni, fino a negare la realtà del rifiuto da parte della persona amata. Bellissima anche la recitazione delle attrici, la simpatia della Valeria Tedeschi e la fragilità della Ramazzotti. E' un film  che fa ridere e riflettere, in un modo che definirei  antiromantico e antiretorico.
Invece il film di Almodovar non mi ha appassionato.
Segue una traccia, che, anche se è ispirata ai racconti di Alice Munro, è la stessa, ma meno potente, di altri suoi film. Le donne in primo piano, come spesso nei film di Almodovar,  sono una madre e una figlia, con un mistero da scoprire.
C'è una foto fatta a pezzi, un incontro che riapre improvvisamente una ferita lontana, un segreto da rivelare, per poi scoprire che invece proprio quel segreto non era più tale. Potrebbe funzionare ed invece non sono riuscita a sentirmi coinvolta. L'idea, affascinante e profonda, dell'ombra del genitore che ricade sui figli ("volevo evitare che tu ti sentissi  come me ed invece scopro che è proprio così che ti sei sentita") viene resa in modo troppo didascalico: il montaggio e la trama del film  appaiono come un susseguirsi di scatole cinesi che si aprono, una dietro l'altra, senza vitalità. Le protagoniste mi sono sembrate bloccate, con una recitazione piatta, di fronte ai drammi nei quali invece sono coinvolte. Dalla scomparsa della figlia, Julieta compra ogni anno una torta per il suo compleanno e la getta poi nei rifiuti: mi è apparso un modo banale per segnare il senso di perdita e l'emergere della rabbia.
Le donne di Virzì si mostrano più frastagliate, non hanno capito tutto, sono inquiete, alla ricerca di qualcosa,  le donne di Almodovar, in questo film, mi sembrano troppo rigide, in molti sensi, con se stesse, con gli altri.
Julieta e Antia sarebbero sane e sembrano malate, Donatella e Beatrice sono pazze e assomigliano a molte di noi.


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